PERDERE LA TESTA. GINNASTICA E FILOSOFIA

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La forma che siamo chiamati a dare alla nostra vita sembra in realtà riguardare innanzitutto il nostro corpo, e l’esercizio che la rende possibile ci riconduce in primo luogo alla ginnastica. Il rapporto con la verità implica uno sforzo che è reso possibile solo dall'accesso alla dimensione faticosa e ininterrotta dell’esercizio: un esercizio di padronanza sulle passioni, sulle abitudini e sulle idee, che permette di passare dal mero essere-formato al versante del darsi-forma. La filosofia, come la ginnastica, è una pratica: non riguarda l’adesione a un determinato sistema di credenze ma una trasformazione di sé, prodotta da una vita incentrata sull'esercizio che consiste nell'uscire dalla corrente, nel combattere l’inerzia da cui veniamo così facilmente avviluppati e trascinati. La filosofia è un esercizio di esposizione, una pratica dell’inquietudine, dell’apertura all'ignoto, all'altro, che non coincide affatto con un lasciarsi andare. Quando si conosce prima il cammino, il cammino migliore, quando si conosce la mappa, quando si sa prima dove dirigere i propri passi e verso quale destinazione, non c’è né riflessione, né deliberazione, né giustificazione da dare, perché non c’è alcuna indecisione. È già deciso, perché non c’è alcuna decisione da prendere. La filosofia ci insegna di nuovo a camminare, richiama la nostra attenzione sul singolo passo. Ogni volta che, muovendoci d’un passo, ci reggiamo ancora in piedi, è solo grazie alla capacità di ritrarci dallo sbilanciamento a cui ci esponiamo; ogni volta che ci squilibriamo nell’atto del camminare, non è affatto ovvio dove il piede andrà a poggiare, quale sarà l’appoggio migliore… Potremmo accorgerci allora che, ogni volta che camminiamo, stando eretti, siamo degli acrobati, rasentiamo l’impossibile. Il discrimine non sta tanto in ciò che pensiamo ma nel come lo facciamo, o meglio se lo pratichiamo, se riusciamo a mantenerci in un rapporto con il senso e la verità che, pur mettendoci in relazione con essi, non li irrigidisce, non pretende di possederli.
Potremmo intraprendere così la filosofia come esercizio di eterocezione: in questione è la percezione dell’altro, il rapporto con l’ignoto. La filosofia resiste alla spinta a circoscrivere l’altro, a dargli un nome., a convincersi che, qualora non lo si possa espellere, lo si può addomesticare. L’ignoto, l’imprevedibile, l’incalcolabile rimangono tali, e solo continuando a salvaguardarli, percependone la presenza, sporgendosi verso di essi, fuori e dentro i propri confini, il pensiero può continuare ad esercitarsi. Nella nostra inadeguatezza, spesso perdiamo l’equilibrio, o forse solo ci illudiamo di mantenerlo, perché ci lasciamo intrappolare e condurre da percorsi predefiniti, facendoci sostenere da supporti già pronti a cui ci appoggiamo. Con ogni probabilità non potremo mai liberarci del tutto da questi sostegni e da queste trappole. Ma , forse, la ginnastica può renderci un po’ più liberi, poiché ci aiuta a sperimentare la precarietà della nostra condizione e dell’equilibrio che ricaviamo dalle nostre condizioni e dai nostri discorsi.
Il torso di Apollo è un torso acefalo, il cui sguardo inquietante non proviene dagli occhi, assenti: l’appello alla forma che esso ci invia ha forse a che fare proprio con la perdita del capo, della sovranità, con la capacità, impossibile da conquistare, di tenersi insieme, di trovare un’armonia, un senso che non poggino sull'univocità e sulla chiusura dell’appropriazione e dell’identità, che si reggano e si elevino in uno scarto continuo dalla dimensione del potere.

(tratto da: ESERCIZI PER CAMBIARE LA VITA – IN DIALOGO CON PETER SLOTERDIJK)

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