DIMMI COME VA A FINIRE


Quasi un'ossessione per il finale. Perdita d'attenzione per la storia, il percorso, la forma stilistica, il coinvolgimento. Disattenzione. Si guarda e basta, solo per essere intrattenuti, distratti dalla sostanza, dalle domande vere. Fittizi e superficiali.
Il finale non è importante. Importante è quello che una storia ci vuole dire, il percorso che con lei facciamo, partecipandola. Farsi coinvolgere, emozionarsi, riflettere, vivere.
Di seguito frammenti d'una recensione, oltre il finale.
The Master. Un film che cerca di restituire le profondità della mente attraverso l’unica realtà rappresentabile, e cioè il corpo umano nella sua impenetrabilità. Ché in definitiva parla di questo: del corpo, della mente e del vuoto che li circonda. Parla di come al di là di un volto, nei pensieri e nell'inconscio di un uomo – di tutti gli uomini – non ci sia poi molto, a dire il vero quasi nulla. E di come, però, quel nulla sia la cosa più vera che possediamo. Va a sbattere contro le porte della percezione e trova in ciò che resta dell’anima (di un uomo) un vuoto infinito.
Al fondo di ogni uomo non ci sono milioni di anni, frammenti di ricordi o addirittura vite passate, ma un eterno presente mosso da bisogni corporei e materiali. Al fondo di ogni uomo c’è l’anima gretta di Freddie Quell, il discepolo-controaltare di Dodd, un allievo che usa le teorie del maestro per soddisfare se stesso, che non sa far altro che menare le mani, che distrugge una cella con la potenza animale dei suoi muscoli,  che dice a tutti di essere libero di muoversi e pensare, quando invece è solo vuoto, in un vetro vede solo un vetro, in un muro un muro, perché la sua libertà non è fatta di viaggi, di catene spezzate, di sogni in Cina, come gli canta nel finale il suo amico e mentore, ma di spazi vuoti, di un campo arato dove correre inseguito da nessuno, di un deserto dove puntare diritti verso un orizzonte sconfinato e così disperdersi nel nulla. La libertà, dopotutto, ha valore solo se si da dove puntare quando si parte verso l’orizzonte.
Anderson entra nella mente e nell'inconscio senza allargare la sua percezione in quanto cineasta, ma scavando a fondo negli occhi vuoti di un essere umano: ciò che si vede sono ricordi, o forse creazioni illusorie di una mente malata che vive di rimpianto e frustrazione. Solo una macchina a mano che si muove lenta, quasi non volesse violare l’intimità di un uomo che sarà pure ottuso e limitato, ma come tutti ha diritto all'inviolabilità dei suoi pensieri.
La grandezza di The Master sta così nella rivendicazione, anche e soprattutto attraverso uno stile oggettivo privo di fronzoli, al limite dell’aridità, di un diritto sacrosanto: il diritto all'inviolabilità del proprio io, di fronte all'invasione del pensiero altrui e, per l’appunto, del cinema stesso.
Nell'incontro tra i corpi di Seymour Hoffman e Phoenix, nel cinema che si espande solamente attraverso di essi, e non in virtù di una visionarietà a cui nessuno ha più diritto, risiede quella che per Anderson è la sola via da percorre per sfuggire alla saturazione di immaginario a cui siamo condannati: la via di uno sguardo che suo malgrado si contrae, che suo malgrado non penetra dentro nulla, ed accetta che là dentro, dentro di noi, ci sono il vuoto e soprattutto niente da raccontare.

Tutta la recensione di Roberto Manassero qui

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